Ofelia, installazione, Orto botanico delle conifere di Ome (BS), 2024

Ma sì! è qui tutto, pensavo, in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede lui. (Pirandello, Uno, nessuno, centomila)

Confesso che da qualche tempo ho cominciato a vedere e sentire cose che nessuno ha mai visto o sentito (Gogol, Memorie di un pazzo)

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Da qualche mese cerco di ritrovarmi, leggo, ascolto, lascio spazio al sogno e ai pensieri.

Smarrirsi è terapeutico, penso, e non ho in mente l’idiozia topografica che pur mi contraddistingue ma la sintonia col mondo, che così a fatica riesco a sopportare.

Quest’incespicare apatico doveva portare ad una gestazione: ecco l’Ofelia ucronica, un’installazione che avevo in cuore da almeno un anno ma che non avevo ancora realmente maturato.

Collegata visceralmente alle intimità urbane nate nei luoghi abbandonati (vi invito a leggere il post Siamo resistenza e resa), è anche un ponte con la mia unica (per ora) creazione in natura, Eoni, realizzata qualche anno fa nello Jutland.

Un’altra opera effimera quindi, contraltare di tutto ciò che operosamente conserviamo.

Credo che anche chi non conosce l’Amleto abbia in mente la delicata figura di Ofelia dipinta dai preraffaelliti e ne ricordi il tragico epilogo. Millais, in un’opera magistrale, racconta la morte dell’eroina descritto nel IV atto della tragedia shakespeariana. Impazzita sia per la morte del padre che per l’apparente follia di Amleto, che la respinge, Ofelia cade nel torrente lungo la cui riva stava raccogliendo fiori e si lascia docilmente annegare nella “vitrea corrente”.

Giovane sensibile e pura, è comunemente vista come incarnazione della vittima innocente. Dai suoi monologhi però emergono elementi torbidi, osceni, ossessivi. È una figura sconvolta a tal modo da essere uscita dal sé che agli altri rappresenta, un archetipo che, prima o poi nella vita, potrebbe incarnare ognuno di noi.

La mia è un’Ofelia anziana, l’esatto opposto dell’icona suddetta, che però paradossalmente approda al suo destino ineluttabile. Per ucronica intendo un’Ofelia che – ‘se’ avesse deciso di vivere – avrebbe potuto sfuggire al simbolismo che l’avrebbe identificata per sempre con la folle per amore, scoprendo una serie di altre possibilità, ma che alla fine, inadatta per sensibilità ad un mondo violento e tragico, sarebbe dipartita allo stesso modo con una ‘fangosa morte’.

Ne è nata una figura sorpresa che guarda in alto e canta, ancora per qualche secondo “familiare con quell’elemento” (l’acqua), reggendo un papavero mentre un pesce vola ai suoi piedi emergendo dal vestito gonfio e rivolgendosi verso i capelli grondanti fiori.

La descrizione dei fiori cui si accenna nella tragedia (ulteriormente arricchita dai dipinti ottocenteschi) è preziosa per un’iconografia che racconta un dramma interiore anche attraverso la natura.

La flora ha una funzione fortemente simbolica e ciò spiega la copresenza di specie – alcune direttamente citate nella tragedia – che non fioriscono tutte nello stesso periodo dell’anno: le rose indicano la bellezza e l’amore; le margherite e le violette simboleggiano l’innocenza e la castità; le foglie di ortica sottolineano il dolore; i nontiscordardimé invitano a non dimenticare; il papavero racconta di sonno e di morte.

Certamente non è un epilogo sereno, ha sapore di predestinazione, ma fatico ancora ad uscire da questo malinconico incedere, forse ero così già da bambina. Ofelia diviene così un alter ego di Amleto, alter ego mio, alter ego dell’umanità dolente.

L’opera risente di importanti perdite familiari e di un inefficace discorso che provo talvolta a raccontarmi sul lutto ma anche di molteplici suggestioni, da Gogol a Pirandello, da Böcklin al poema sinfonico di Rachmaninoff, dalla crudele leggenda di Ubasute rievocata dalle Ballate di Narayama ai dialoghi sulla percezione di sé in Stella Maris.

In sintesi, la mia incapacità di sopportare il dolore del mondo rende tremendamente attuale quel “Me misera, che ho visto quel che ho visto, e vedo quel che seguito a vedere!”. L’Ofelia ucronica è un’amara riflessione sulla condizione umana, sulla follia come fuga dal mondo, sull’impotenza del singolo e sulla frustrazione che ne consegue.

Si tratta di un disegno in anamorfosi poi virato sui toni rossi, una deformazione anche simbolica che si ‘riforma’ una volta trovato il punto di osservazione che ho scelto. Siamo inadatti da molteplici punti di vista ma sensati e profondi da quella sola prospettiva che valorizza le nostre diversità.

Ho scelto un laghetto perché fotografare un disegno nella corrente di un ruscello sarebbe stato impossibile ma anche perché in questo luogo magico ho trovato la condizione perfetta per il concetto che volevo esprimere.

Ringrazio quindi il prof. Antonio de Matola per l’ospitalità presso l’incanto degli Orti botanici e il Comune di Ome.

La fotografia è di Andrea Zampatti. Ogni momento importante della genesi di quest’opera è stato con lui, animo lucente realmente pervaso di natura.